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L'ultima spiaggia

di Emilio Manfredi

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E siamo arrivate quaggiù, sulla spiaggia delle case abbandonate.
Io ho la mia stanza, con la zona giorno e quella notte, divise da una tenda. Ho un materasso, una sedia rotta sistemata con dei mattoni. Poi c'è il mio pezzo preferito: il comodino con il grande specchio. La mattina resto incantata a osservare. Lo specchio, la mia figura, le foto che ho appeso. Questa è mia madre, assieme a mia figlia. L'altra è Stephanie, l'attrice nigeriana. È bellissima, cerco sempre di truccarmi come lei, quando esco.
E vorrei assomigliarle di più.
Si sta facendo tardi. C'è la messa, ci dobbiamo preparare. Fuori abbiamo messo i panni ad asciugare, sullo spiazzo di cemento segnato dal sole, dalla pioggia e dalla salsedine. A terra mettiamo anche le parrucche. È bello pettinarci i capelli l'una con l'altra: Patience è la più brava, tutti vogliamo i capelli fatti da lei. È un lavoro che porta via ore, ma anche un momento per stare assieme e raccontarci com'è andata la giornata. E una scusa per stare a guardare i ragazzi al lavoro, senza aiutarli. Perché in Liberia trovare un mestiere è difficile se non hai qualcuno che ti raccomanda. Così ci siamo ingegnati e abbiamo messo su una fabbrica di mattoni. Prendiamo la sabbia dalla spiaggia e la mescoliamo con il cemento e l'acqua di mare. Soprattutto sabbia, perché il cemento è troppo caro. I mattoni li mettiamo ad asciugare al sole. Spesso si sbriciolano, ma tanta gente ha pochi soldi.
E vuole risistemare casa, sperando che nessuno vada più a bombardargliela.
Tortoise sembra un posto isolato. Le onde e il vento allontanano i rumori, esasperano gli spazi. La città, però, è alle nostre spalle: cinquecento metri e passa la strada principale di Monrovia, quella che dal centro va all'aeroporto. In mezzo, tra le mangrovie, c'è la laguna. Come un galleggiante al largo, ci sentiamo lontani da tutto. Molti di noi non passano mai il piccolo ponte di tubi che attraversa lo stagno: lì sotto piazzano le trappole per i pesci gatto. Accendono una sigaretta e aspettano. Poi recuperano le prede e le vendono per pochi spiccioli. Perché la laguna è inquinata e quel pesce fa male.
E noi che lo sappiamo, non ne mangiamo.
Io non ho un lavoro fisso, mi arrangio. L'ultima cosa che ho fatto è stata la raccolta dei dati per il censimento. Le mie amiche vanno nei club. Sperano di conoscere qualcuno, anche per una notte. Io, invece, la notte accendo una candela e studio: ingegneria all'università, primo anno. Alla fine ce l'ho fatta. Ho passato i test e messo insieme i soldi per pagare la retta. È il mio sogno da quando, un giorno di tre anni fa, andavo al villaggio a trovare i miei. La strada era impossibile. La strada non c'era. Non un ponte. Nulla. Quel giorno ho deciso: volevo aiutare a ricostruire il mio Paese. Andare all'università, poi, mi fa sentire importante. Le lezioni, i professori, le grandi aule.
E quella scritta all'ingresso, che non capisco ma ho imparato a memoria: University of Liberia. Lux in tenebris.
Adesso mi metto il vestito buono, l'unico che ho. Bianco, dal taglio tradizionale. Lo tengo per la messa assieme a queste scarpe col tacco. La chiesa è poco più in là, ricavata in uno spiazzo sulla spiaggia. Le pareti sono di bambù, il tetto di alluminio. La porta non esiste: è un muro immaginario, un muro d'acqua. Uno sguardo diretto sull'immensità del mare. A me piace sentire la voce squillante del pastore, accompagnarsi alle onde ribelli. Adesso ha anche cominciato a piovere: acqua e vento, ovunque, a mischiarsi con le parole di padre Amos. Leggiamo i Proverbi, il mio libro preferito.
E il reverendo recita. «28, 27. Per chi dà al povero non c'è indigenza, ma chi chiude gli occhi avrà grandi maledizioni».

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